Nella sentenza n. 3310 del 2015, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso della famiglia Galeone, ritenendo che, in assenza di ulteriori elementi, il rapporto di parentela non sia sufficiente a provare il tentativo di infiltrazione mafiosa. Secondo i giudici di Palazzo Spada, non vi è infatti alcun automatismo tra il rapporto di parentela, seppur congiunto, ed il condizionamento dell’impresa tale da far presupporre che l’attività abbia dei fini malavitosi.
Nel caso di specie, la questione nasce dal fatto che il signor Corvino, cognato del signor Galeone, annoverava numerosissimi controlli di polizia in virtù del suo “rapporto” con personaggi affiliati al clan camorristico dei casalesi. Tali riscontri, ritenuti idonei ad integrare l’esistenza di un quadro indiziario di tutto rispetto, hanno portato il giudice di primo grado a sostenere il giudizio dell’ Amministrazione circa la sussistenza di tentativi di infiltrazioni mafiose tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società ricorrente.
L’impugnante, nei motivi del proprio ricorso, sottolinea l’insufficienza del quadro istruttorio posto a sostegno della misura di rigore, soprattutto in virtù del fatto che il Comando dei Carabinieri aveva formulato l’esigenza di integrazione degli elementi dallo stesso raccolti, con specifico riferimento alle posizioni degli amministratori e dei soci della ditta interessata.
L’insufficienza delle risultanze istruttorie si riflette sulla congruità e adeguatezza della motivazione del provvedimento del Prefetto di Caserta che deve, in ogni caso, delineare un sufficiente quadro che renda significativo, anche se su un piano solo indiziario, il pericolo di condizionamento e di infiltrazione mafiosa.
Inoltre, per ciò che concerne la situazione di convivenza, il ricorrente documenta la limitata durata temporale e la cessazione della stessa prima dell’adozione della misura interiettiva.
Con riguardo, inoltre, alla rilevanza del rapporto di parentela con soggetti che si affermano appartenenti o in rapporto di contiguità con la criminalità organizzata, è utile sottolineare come la prevalente giurisprudenza è orientata nel senso che “il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori elementi, non è di per sé idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione. Non può, infatti, configurarsi un rapporto di automatismo tra un legame familiare, sia pure tra stretti congiunti, ed il condizionamento dell’impresa, che deponga nel senso di un’attività sintomaticamente connessa a logiche e ad interessi malavitosi” (Cons. St., Sez. III, n. 96 del 10 gennaio 2013; n. 4995 del 5 settembre 2011; sez. VI, n. 5880 del 18 agosto 2010; n. 3664 del 23 luglio 2008; n. 3707 del 27 giugno 2007).
Nel caso di specie, quindi, i giudici di Palazzo Spada, ritengono di non ritrovare elementi e circostanze tali da giustificare la misura interdittiva, anche e in virtù del fatto che l’ applicazione automatica della misura interdittiva rappresenterebbe un irragionevole ostacolo al ripristino di un regime di vita lavorativa improntato al rispetto della legge nelle aree geografiche del Paese contraddistinte dalla forte presenza di organizzazioni criminali (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 5866 del 25 novembre 2009).
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