Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con sentenza n. 323 del 2021, dispone che il vincolo di parentela tra imprenditore e un soggetto vicino ad associazioni per delinquere di stampo mafioso, non sia da solo sufficiente a provare l’infiltrazione mafiosa ai fini dell’interdittiva prefettizia.
Nel caso specifico, l ‘impresa individuale ricorrente era destinataria di una interdittiva prefettizia, motivata tra il resto sulla base di frequentazioni sospette del ricorrente con vari soggetti, tra cui due cugini, a loro volta già destinatari di informazione antimafia (poi tra l’altro annullata).
In particolare, il Collegio statuisce che il legame parentale non costituisce di per sé un indizio dell’infiltrazione mafiosa, specie laddove il parente deriva la propria presunta pericolosità dalla frequentazione di altri soggetti. La pericolosità sociale non si trasferisce infatti automaticamente da un parente all’altro ma occorre almeno ipotizzare che dal rapporto di parentela sia scaturita una cointeressenza in illeciti rapporti o compartecipazione in azioni sospette.
In quanto, benché il provvedimento prefettizio sia manifestazione di un potere ampiamente discrezionale, la regola da applicare nel formulare il giudizio diagnostico sfavorevole è quella del “più probabile che non”, con la conseguenza che il provvedimento interdittivo necessita, in ogni caso, di un valido ancoraggio a fatti e condotte specificamente individuate e provate.
Nel caso qui controverso difettano invece quegli “indici fortemente sintomatici di contiguità, connivenza o comunque condivisione di intenti criminali” ritenuti indispensabili dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105 nonché da ultimo, nel medesimo senso, anche CCGARS 30 dicembre 2019, n. 1099).
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