Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4688 del 2016 si è pronunciato sulle procedure che hanno ad oggetto la dismissione di un ente statale dalla partecipazione al capitale sociale di una società.
La legittimità della suddetta procedura sottende a due profili fondamentali: la competenza dell’organo deliberante (le dismissioni) e l’insussistenza dei presupposti ex lege per i quali la partecipazione medesima è attiva.
In ordine alla questione sulla competenza interviene la disposizione normativa sancita dall’ art. 42, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 267 del 2000 che demanda, legittimandoli, ai consigli le attribuzioni valevoli ad assumere decisioni a fronte della dimissione prospettata. La legittimazione deriva dall’assunto che essendo il consiglio l’organo di indirizzo e di controllo politico – amministrativo, questi ha competenza per adeguare e verificare periodicamente l’attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco, del presidente della provincia e dei singoli assessori.
Per quanto concerne il secondo aspetto relativo ai profili sostanziali va anzitutto ricordata la pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato che vede “un evidente disfavore del legislatore nei confronti della costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche (ivi comprese le Università) di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dall’ambito delle relative finalità istituzionali, né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie (secondo il modello delle c.d. ‘società di diritto singolare’)” (Cons. Stato, Ad. plen., 3 giugno 2010, n. 11). Si rileva pertanto la necessità che il rapporto di strumentalità tra l’ente societario e l’amministrazione partecipante non dipenda dal solo oggetto sociale ma anche dalle prerogative e finalità istituzionali dell’amministrazione stessa, vale a dire la capacità per l’ente di assicurarsi un’incidenza determinante sul governo della società partecipata.
Quanto appena sostenuto è sorretto anche dai profili di ordine economico soprattutto se l’organo competente ad espletare la procedura non si sottrae agli obblighi di applicazione della finanza pubblica ma al contrario assume l’onere di valorizzare una circostanza determinante ai fini della scelta di dismissioni dettata dalla esigua partecipazione azionaria di minoranza pari ad una percentuale talmente bassa da non essere in grado di influenzare la politica e le scelte strategiche di sviluppo territoriale dell’ente societario.
In relazione al caso delle alienazione di cestiti patrimoniali, l’obiettivo che qualsiasi soggetto pubblico titolare di partecipazione in forme societarie intende perseguire è quello della massimizzazione del ricavo ritraibile come corrispettivo per la cessione. Pertanto, il criterio del massimo rialzo non può essere contestato quando questo è volto a stimolare la competizione dei privati interessati all’acquisto sulla base minima data dal valore di mercato delle azioni oggetto di dimissioni. Va da sé che l’opposto criterio del massimo ribasso finirebbe per premiare l’offerta meno vantaggiosa per l’amministrazione.