TAR Palermo, proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Siciliana 20/2015

Il TAR Palermo, con ordinanza n. 39 del 2017, ha proposto questione di legittimità costituzionale, per accertare la legittimità dell’art. 12, comma 1, della l.r. 15 maggio 2013, n. 9, come sostituito dall’art. 83 della l.r. n. 20 del 2015, il quale testualmente prevede che: “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è dovuto un canone di produzione annuo che è commisurato alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava”. In particolare, secondo i giudici di via Butera,tale disposizione sembra, infatti, contrastare con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione e il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

In particolare, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituiscono indici significativi della natura tributaria di una prestazione imposta: 1) la matrice legislativa, in quanto il tributo nasce “direttamente in forza della legge”; 2) la doverosità della prestazione che comporta un’ablazione delle somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti; 3) il nesso con la spesa pubblica, dovendo sussistere un collegamento alla stessa “in relazione a un presupposto economicamente rilevante” , nel senso che la prestazione è destinata allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente impositore

In primis, come si evince dal dato normativo, l’obbligo del pagamento trova la sua fonte esclusiva nella legge regionale e non costituisce remunerazione dell’uso di beni pubblici; la prestazione imposta è finalizzata a dotare i Comuni e la Regione dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura concreta degli interessi generali.

Per quanto riguarda il secondo elemento, va rilevato che mentre la Regione può utilizzare liberamente la propria parte, i Comuni devono destinare le somme al finanziamento di interventi infrastrutturali di recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio, del tessuto urbano e degli edifici scolastici e ad uso istituzionale; nonché alla manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale connessi all’attività estrattiva o su beni immobili confiscati alla mafia ed alle organizzazioni criminali.

In definitiva, secondo il giudizio del collegio, la prestazione in esame è un tributo, avente: a) quali soggetti passivi, i concessionari di giacimenti minerari; b) quali soggetti attivi, la Regione e i Comuni; c) quale presupposto economicamente rilevante, la gestione dei giacimenti; d) quale base imponibile, una entità monetaria commisurata alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava.

Qualificato il canone come tributo, va ricordato che nella previgente disciplina lo stesso era quantificato con riferimento alla quantità di minerale estratto, mentre in quella attuale alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati. Ne deriva che il corrispettivo per l’uso del giacimento non è più commisurato alla sua resa, la quale tende a diminuire nel tempo in dipendenza del suo sfruttamento, ma alla sua estensione, diventando pertanto un contributo fisso, e slegandosi dalla capacità contributiva.

Per quanto riguarda la violazione del principio di uguaglianza, il Collegio, ritiene che l’art. 83 determina immotivate discriminazioni all’interno della medesima categoria dei titolari di giacimenti minerari tra quelli che gestiscono cave di piccola dimensione, ma ad elevata resa (es. marmi) e quelli concessionari di cave di grande estensione, ma a bassa resa (inerti).

Alla medesima ampiezza corrisponde, infatti, una remuneratività profondamente diversa con conseguente irragionevolezza del riferimento alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava ai fini della quantificazione del canone.

Pertanto, sembra che a situazioni differenti si applichi il medesimo trattamento in maniera irragionevole.

Inoltre, i giudici del TAR Palermo, ritengono illegittimo l’art. 83 della legge regionale siciliana n. 20 del 2015 nella parte in cui modifica l’art. 12, comma 8, della legge regionale siciliana n. 9 del 2013, nella parte in cui dispone che la norma va applicata anche per il calcolo del pagamento dei canoni relativi all’anno 2014. In particolare, appare palese la violazione degli artt. 3 e 111 della Costituzione in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

Per quanto riguarda il primo dei due parametri evocati, nello specifico, l’art. 83 appare illegittimo, in quanto lede il principio dell’affidamento, con conseguente violazione del principio di irretroattività della legge. La norma surriportata produce, infatti, la lesione con effetto retroattivo di un “bene” che i concessionari di giacimenti minerari hanno acquisito sulla base di un legittimo affidamento ingenerato dalle previsioni contenute nella previgente formulazione.

In particolare, appare in queste sede opportuno evidenziare che, secondo un costante orientamento della Corte Costituzionale, il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 della Costituzione. Si ritiene, infatti,  che il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare norme con efficacia retroattiva a condizione che rispondano al principio di ragionevolezza, e non contrastino con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (in tal senso Corte Costituzionale, 4 agosto 2003, n. 291).

Per ciò che concerne i rapporti di durata,  non è interdetto in termini assoluti il potere di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la loro disciplina, ma è necessario che le stesse, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non trasmodino in un regolamento irrazionale e non incidano arbitrariamente sulle situazioni sostanziali originate da leggi precedenti, frustrando l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica (sentenza n. 349 del 1985; in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 302 del 2010; n. 236, n. 206 e n. 24 del 2009; n. 409 e n. 264 del 2005; n. 446 del 2002; n. 416 del 1999). Tale modifica ha apportato un’importante riqualificazione del canone dovuto, tutto ciò in maniera improvvisa e imprevedibile, con la conseguenza di apparire palesemente illegittimi (sentenze n. 64 del 2014 e n. 302 del 2010),

In particolare, infatti, i titolari di giacimenti minerari si sono trovati esposti a un inaspettato e considerevole esborso economico che non sono stati posti nelle condizioni di valutare ex ante nell’organizzazione della propria attività imprenditoriale.

Tutto ciò considerato, sembra a questo TAR che sia stato irragionevolmente leso l’affidamento riposto nella quantificazione del canone in applicazione dei criteri all’epoca vigenti ai fini della individuazione delle proprie strategie imprenditoriali.

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